In provincia di Bologna, la Strada Provinciale 11 "San Benedetto", di una decina di chilometri, unisce Pieve di Cento a San Pietro in Casale, e negli anni dell'università, quando abitavo a Castello d'Argile e Cento, era la mia strada preferita per i giri in bicicletta. Solo chi ama la bicicletta può capire la seguente "poesia" (?), o meglio "prosa ritmica", scritta nel 1980 o 1981: originariamente scritta tutta di seguito, senza spezzare i versi, sulle due facciate di un foglio in modo da riempirle completamente e da non lasciare capire su quale delle due facciate iniziasse. Tutto il gioco si basa sul ritmo "cardiaco" dei doppi senari alla "Dagli atri muscosi ..." (due accenti ritmici per senario: uno sulla seconda e l’altro sulla quinta sillaba), uno stratagemma che imprime un ritmo costante a tutta la composizione. Ora, a oltre vent'anni di distanza, mi sembra una cosa molto naïf, ci sono stratagemmi molto rudimentali (il verbo "pompare" con il suo "tum-tum" ricorrerà cento volte), ma almeno a me, che so cosa volevo dire di preciso, dice ancora qualcosa. Per inciso, adesso abito a San Benedetto, sulla strada di cui sopra.

 

S. P. 11 BO

 

Si stende e mi tira, si apre e mi prende
e sono già in volo che spingo, che spingo
e sento che corre lì sotto alle ruote
(riflessi sui raggi che girano svelti,
e tu non li vedi: li senti soffiare)
nel vento che taglia, che taglia e che bagna
e asciuga il sudore che cola in silenzio
attorno alle spalle, ai lati del naso
(il casco mi scuoia), veloce negli occhi
che vedono bene e guardano fissi
la linea di mezzo, che apre e spalanca
veloce, là in terra ti scappa di sotto,
e ritma e ti spezza l'istante in istanti
di bianco e di nero (oh, fosse già buio!)
qui mentre io spingo e sono di gomma
che vive pulsando (il cuore che pompa).

 

E tieni, la tieni, la vedi e la senti,
e tu ci sei sopra che spingi e che canti,
che canti in silenzio l'odore di ruote
che ti fa l'asfalto mentre tu lo tagli
con ruote affilate, con lame rotonde,
sbattute nei cerchi di mille pedali
che girano piedi di gambe rotanti
sull'onda del sole che vedi e non vedi
tra il ritmo dei pioppi che corrono ai lati
e strappano file di suoni dal cambio
riflessi dai tronchi su tutti i filari
composti e scomposti dal moto del mezzo
che vola (tu, spingi!) più presto del vento
che infligge alle ruote sonori ceffoni
e piccoli schianti sulla pedaliera
che ruota decisa (tu pompi sui piedi)
tra gambe lanciate lì contro ai ginocchi.

 

La senti la strada: carezze d'asfalto,
bitumi celati sul bordo dell'erba
e limiti tenui tra asfalti diversi
di tutte le estati che spaccano strade,
là dove riluce sul ciglio il catrame
scordato dal tempo lì nella banchina,
che è il limite destro del mondo che vedi
vicino alle scarpe che vestono e sono
già parte del piede: ma sai che non riesci
a dire in che modo tu senti per certo
che sei senza piedi, e senti girare
sulle sue gabbiette il perno centrale
laggiù tra i talloni che il vento ti bacia,
là nella tua carne; che scorre, si spande
ti dice: "Tu esisti, ma non si sa dove:
sei forse quel pioppo che vedi guardare,
dal quale tu guardi il modo in cui passi,
da sopra e da dietro (perchè ti allontani),
o forse sei questo viticcio arrossato
che ti è già trascorso al fianco sinistro
(perchè non ti fermi?)
" Ma devi volare,
non puoi rimanere fermo sulle ruote
che chiamano amore il frusciare dei raggi,
che dicono amore al vibrare del cambio
che conta le maglie che a cento al secondo
gli corrono dentro e scappano fuori
per poi ritornare e spingerti avanti
la sella e il manubrio; tu sai dove sono,
però non capisci dov'è che ha principio
il ferro del mezzo e la carne dell'uomo.

 

E' dolce la curva che fa il tuo manubrio
che guardi, accarezzi, intrecci le dita
su leve dei freni limate dall'aria,
pulite da mani che sanno frenare
e mettere in sesto registri e cavetti,
e pattini forti dal morso deciso.
Dov'è la tua sella? Lì dentro alla pancia,
che geme e sostiene il tuo baricentro
lanciato in avanti da cosce contorte
ma fisse nel gesto che pompa, che spinge,
che resta costante cambiandosi sempre.
Le ruote son righe: son dritte, son tese,
dirigono gli occhi alla strada che fugge
(e vedi la vista che scappa, scompone,
si spezza in due parti, la devi inchiodare
ma scappa di nuovo). Se guardi lontano
capisci che gli occhi ti cercano il fondo,
là dietro al paesaggio che tu vedi bene;
ma guarda vicino, ed ecco che è doppia
la riga di gomma che fischia impaziente
(tu spingi là dietro). Di dietro o davanti?
Ma sei nella strada o vai in bicicletta
sopra alla tua schiena? Non senti che passi
lì sopra a te stesso? Ti senti passare?

 

Perchè poi ti piaccia la San Benedetto
lo vorresti dire, però non ci riesci,
perchè sembra troppo già il suono che l'aria
ti fa se ripensi alle corse d'autunno
giocate sul filo di pochi secondi
che l'aria ti strappa se solo si aggrappa
un po' alla tua bici. perchè le vuoi bene?
La San Benedetto ti piace diritta
e priva di vento, coi suoi bei cartelli
che senza pudore ti gridano in faccia
chilometri esatti e già ricordati,
percorsi e sentiti già ruota per ruota.
Segreta e lustrale, che taglia la quiete
di campi fumanti in sere di ghiaccio,
col senso sportivo di stare esplorando
(dov'è questo posto?) e il feeling più quieto
di chi trasgredisce le leggi del caso,
essendo e muovendo nel gran paradosso
di esser partito e stare arrivando,
di essere sempre là dove non resti.

 

E c'è Mascarino, laggiù per il bivio
con quelle sue curve spezzate a ginocchio
che attirano tanto (conosci le gobbe,
le prendi sparato e ci voli attraverso,
con la sensazione di correre un rischio
più nuovo e diverso dall'ultima volta).
E poi ti ricordi del fiato, già fumo,
in ritmi serrati là verso San Pietro
in sere d'inverno votate alla bici
con geli accaniti a farti godere
del bacio dell'aria, che allora è più tersa
e schioda le stelle da sopra i tramonti
che accendono il cielo con tremila fuochi
dal rosso più acceso a un rosa carnale.
E tu ci pedali, non guardi le ruote
(che tanto le senti, che sai dove sono)
ma guardi le mani che porgi alla sera
con i palmi aperti, le dita distese
che sfiorano l'aria che bacia le labbra,
gli zigomi freddi, il petto di lana.
Oppure, d'estate, la pelle che offri
all'onda del sole, già nera, pulita,
ti canta una storia di questa tua strada,
che forse è una parte del sangue che pompi.